Tom à la fermeRegia: Xavier Dolan
Cast: Xavier Dolan, Pierre-Yves Cardinal, Lise Roy, Evelyne Brochu
Produzione: MK2 Productions
Titolo originale: Tom à la ferme
Nazione: Francia, Canada
Anno: 2013
Genere: Drammatico
Durata: 105'
In cinque capitoli si dipana l’adattamento di Xavier Dolan dell’omonima pièce di Michel Marc Bouchard, primo script non originale per il giovanissimo cineasta (ventiquattro anni) al suo quarto titolo (i primi tre, diversissimi uno dall’altro, non hanno mai trovato distribuzione in Italia), prova decisiva che, proprio attraverso l’approccio all’adattamento, rende chiara, nelle sue linee guida, l’idea di cinema del regista, individuandone con nettezza le coordinate stilistiche, il metodo, l’approccio (il primo piano sul fazzoletto di carta su cui il protagonista verga il suo senso di colpa preannuncia, alla sua maniera - enfatica, toccante -, le modalità di gestione del coté drammatico).
Il protagonista rimpiazza, nella fattoria in cui si reca in visita per parteciparne al funerale, quel figlio/fratello morto che è anche stato il suo compagno, anche se questo, la madre inconsolabile, rinchiusa nel suo microcosmo ostile a ogni infiltrazione del mondo esterno, non deve saperlo. La fattoria diventa allora una trappola anche psicologica nella quale il protagonista cade e in cui le vicende si svolgono secondo un verbo che affonda nell’horror (l’apparizione notturna di Francis, il fratello del morto, che irrompe senza preannunci in scena) e del thriller (la tensione che si accumula nelle minacce tacite e costanti di Francis, l’inseguimento nel campo di mais, le menzogne da gestire, il continuo gioco a rimpiattino tra i due giovani), impregnati degli umori terragni e malati di una tragedia familiare cupa sì, ma a tratti illuminata da raggelanti lampi ironici.
Come in tanto cinema odierno, si mette in scena (letteralmente e non) una famiglia che non esiste, un nucleo deviato che di quella mantiene la parvenza: ce la si prende allora con una compagna che non è andata al funerale (e che non c'è mai stata, salvo invertarsela - cosa che accadrà -) e si finge la descrizione indiretta della storia etero di quel figlio nascostamente gay, racconto che, dalla finzione, sconfina in un’intimità che è palesemente vera, inequivocabilmente “diversa”, ma che non scombussola una madre abbarbicata alle sue fittizie certezze, quelle alle quali non sa rinunciare neanche quando le parole di Tom raccontano spudoratamente altro, sotto mendaci spoglie. Di segno simile il rapporto tra Tom e Francis, conflitto in cui l’omofobia classicamente, risaputamente, banalmente (e non lo si legga in chiave negativa) è quella del cripto-gay e che sancisce la storia del film quale apologo sulla psicosi di due esseri che affrontano assieme un percorso di evoluzione (l’uno di scoperta di sé e delle proprie pulsioni sessuali e sentimentali - con disperata ammissione finale -, l’altro della tormentata elaborazione di una colpa non meglio definita). Nel parallelo percorso dei due si vedano allora le ragioni per le quali Tom si lascia risucchiare dalla ferme: ne diventa parte e meccanismo, si sottomette alla legge e al sadismo fraterno, si scopre complice dell’aguzzino, lo segue nelle sue scorribande alcoliche e allucinogene, lo difende persino, accetta di diventare il sostituto del compagno morto, di piegarsi a un ripristino artificiale dell’ordine sovvertito. Il protagonista non avverte il peso della violenza esercitata su di lui perché tutto il dolore che gli viene inferto in quella casa fa parte del suo processo di espiazione: è dovuto, accettato, cercato. Un dolore cui si sottrarrà quando, scoperto il vero volto del suo amante morto, smetterà di espiare; quando, ascoltando le parole del barista del paese, il sanguinoso racconto della violenza di Francis, tornerà a vedere il giovane con lo sguardo della lucidità.
Dolan costruisce la tensione attraverso espliciti rimandi a Hitchcock, facendo largo uso di notabili musiche hermanniane e, diversamente da un Ozon, non sublima o volatilizza i riferimenti, ma con la voracità tipica del giovane che è, li mastica velocemente e li risputa quasi intatti sullo schermo. È forse questo che mi entusiasma maggiormente del lavoro del canadese: poter vedere all’opera un cineasta che gira con l’ingenuità, l’entusiasmo, la mancanza di rigore, la ruspanteria tipica della sua età. Non ho dubbi che col tempo Dolan troverà una misura, riuscirà a dosare magistralmente gli elementi, a girare un’opera equilibrata e perfetta, ma adesso e solo adesso il suo cinema si mostra sinceramente tellurico e irruente, naif come quello di nessun altro. Solo adesso sfodera il furore autentico di chi non si preoccupa delle sfumature e del calcolo delle atmosfere, solo ora riluce di tutto bianco e si ottenebra di tutto nero. Esagerato, sfrontato, spericolato, sempre sull’orlo del kitsch, Tom à la ferme è davvero la cartina di tornasole del cinema di Dolan: vincolato nella sostanza, ma pazzamente libero nell’esibizione di uno stile proprio di chi non si pone il problema di eccedere, di essere anche grossolano (e allora lo schermo si restringe in scope per soffocare nell’immagine i personaggi), che non calcola ogni effetto: Dolan schiettamente si butta e fa quello che sente. E quando alla fine - Tom sta tornando alle luci e ai rumori della città - piazza sui titoli un veramente ovvio, telefonatissimo Rufus Wainwright, quello di Going to a Town - che più didascalico non si può (I'm going to a town that has already been burnt down/ I'm going to a place that has already been disgraced /I'm gonna see some folks who have already been let down/ I'm so tired of America) - mi verrebbe voglia di battergli il cinque. (spietati.it)
Dopo aver visto
J'ai tué ma mère pensavo di continuare la visione delle opere di Dolan seguendone la cronologia ma avevo questo a portata di mano e, pensando di avere ancora qualche minuto prima di addormentarmi, ho provato a vedere come era l'inizio, così per farmi un'idea, e non sono riuscito a staccarmi prima di arrivare alla fine
, un'ora e quaranta volata, passata quasi in apnea tra paure e tensioni psicologiche, un film che mi ha entusiasmato per quel suo essere nuovo anche se una volta smontato ti rendi conto che è fatto di tanti piccoli pezzi che hai già visto e rivisto, solo che Dolan li rimonta con quel suo modo sfacciatamente sincero che alla fine ti costringe a perdonargli tutto.
Per me un 8 e anche qualcosa in più per avermi scosso e impaurito per davvero.