Fantasmi da MarteTitolo originale: Ghosts of Mars
Regia: John Carpenter
Interpreti: Natasha Henstridge, Ice Cube, Jason Statham, Clea DuVall, Pam Grier, Joanna Cassidy, Richard Cetrone, Rosemary Forsyth, Liam Waite
Soggetto: John Carpenter, Larry Sulkis
Sceneggiatura: John Carpenter, Larry Sulkis
Produttore: Sandy King
Fotografia: Gary B. Kibbe
Montaggio: Paul C. Warschilka
Effetti speciali: Lance Wilhoite
Musiche: John Carpenter
Scenografia: William A. Elliott
Trucco: Robert Kurtzman, Greg Nicotero, Howard Berger
USA 2001
Durata:98 minuti
Genere: azione, fantascienza, orrore, thriller
Marte, 2176. Il pianeta, colonizzato dai terrestri, viene sfruttato sul piano minerario. Nel corso di uno scavo si scoprono i resti di un'antica civiltà i cui guerrieri vengono risvegliati. Questi entrano nei corpi dei terrestri e sembrano inarrestabili. Il tenente Melanie Ballard, un'agente della polizia che agisce sul Pianeta Rosso, si trova a Shining Canyon per consegnare alla giustizia James "Desolation" Williams. I due, da rivali finiranno col diventare alleati nella lotta contro i 'fantasmi' marziani. John Carpenter è un regista di culto per alcuni e un abile mestierante per altri. Certo è che i suoi film sono a buon diritto tra i più noti sul piano di un consumo popolare che non viene disdegnato dai cinefili più agguerriti. Così non può non essere accolto favorevolmente un film come questo che fonde i "luoghi"del suo cinema in una sorta di summa.
Si è molto discusso sugli (evidenti?) debiti di Carpenter nei riguardi del genere western e, più specificatamente, nei confronti di Rio Bravo, Un dollaro d’onore o Quel treno per Yuma, ma riteniamo la questione accademica e priva di interesse. Certo, gran parte della sua ultima pellicola echeggia Assault on Precint 13 che, a sua volta, era una sorta di remake impasto delle opere citate, ma i toni e il concetto centrale del film sembrano molto distanti dall’archetipo western. Regista più di ogni altro a corrente alternata e, proprio per questo, ancora più lucidamente anarchico, Carpenter riesce finalmente ad uscire da un lungo tunnel buio durato tre film con una produzione di forte impatto visivo e dalle evidenti letture sociopolitiche. I fantasmi di Marte possono rappresentare una parafrasi dei pellirossa sterminati dagli americani, o di qualsiasi popolazione indigena estintasi a contatto con la civiltà, ed è altresì degno di attenzione, sebbene non approfondito, il tema della società matriarcale e dei rapporti fra i sessi in una tale struttura. Carpenter osa alcune finezze tecniche, come raramente gli è capitato di fare negli ultimi anni, e certe dissolvenze a tenda, l’uso ripetuto dei flashback, alcune sperimentazioni con il digitale rendono ancora più interessante la pellicola. Nonostante qualche concessione alle nuoveecnologie, il nostro continua a perseguire la strada dell’artigianato, intrappola Marte in una visione realista al limite dello squallore, scevra di raggi laser ed astronavi scintillanti, densa invece di polvere, deserti e stazioni ferroviarie abbandonate. Tutti presi dai paragoni con Howard Hawks i critici nostrani sembrano quasi dimenticare la lezione che emerge: Carpenter, nonostante le sue dichiarazioni e probabilmente contro il suo stesso volere, è un regista di horror movie e i momenti più intensi sono quelli che ricadono dentro questo genere. Le stanze con i corpi massacrati e le strane sculture che pendono dal soffitto, l’altopiano con le teste impalate e le scarnificazioni sui volti degli indemoniati, l’assedio dei marziani con il loro ferocissimo leader… Siamo dalle parti dei film di Romero, forse con maggior passione e minore parafrasi sociologica, e quella nebbia rossa che pervade e contamina gli esseri umani non può far altro che ricordare altri tipi di gas ed emanazioni che rendono zombie gli enturati personaggi de La notte dei morti viventi, così come analoghi sono gli assedi dei mostri e la disperata lotta degli umani. Paradossalmente, sono proprio le scene più facilmente riconducibili al western che sembrano perdere efficacia: le sparatorie e gli scontri sono condotti con mano incerta e impacciata, con orde di creature che aspettano pazientemente di battersi in fila indiana contro gli eroi e le frasi messe in bocca ai personaggi suonano false e di maniera. Carpenter , grande ammiratore del cinema di Hong Kong in tempi non sospetti, sembra non rendersi conto che l’apporto di registi quali Woo, Tarantino, Wachowski bros. o Raimi ha dettato nuovi ed imprescindibili canoni cinetici per scene di questo tipo, non tanto per le posizioni della telecamera o i modi di ripresa quanto piuttosto nel dirigere gli attori, meglio ancora i loro corpi. Inevitabilmente superato (anzi, cocciutamente sordo e cieco al cinema-videogame, del quale non si vogliono mai recepire i lati positivi), il regista di The Thing propone inquadrature poco incisive, lasciando gli attori ad improvvisare con risultati legnosi e statici. In generale risulta inefficace la recitazione dell’intero cast, senza voler far torto a nessuno in particolare, sebbene sia davvero inspiegabile la scelta della Henstridge (un cedimento dell’autarchico Carpenter verso la lectio delle major che prescrivono almeno una bonazza per film?) e totalmente fuori ruolo il buon Ice Cube, che vorrebbe probabilmente ripescare la figura del cow boy cupo, rassegnato, ma uomo (ed umano) fino in fondo. Ice Cube non riesce ad incarnare questo stereotipo, limitandosi a far vagare il suo grasso corpicino in giro per il set, con una perenne espressione da cane bastonato. Eppure, nonostante i dialoghi da fotoromanzo e la narrazione eccessivamente confusa, Ghosts of Mars rimane un’opera buona, una delle migliori prove di Carpenter, ricca di visioni suggestive proprio per la loro natura cruda ed artigianale, equilibrata fra le evidenti suggestioni steampunk (i treni, i quadri di comando ed i macchinari in genere…) con un insolito sottinteso sessuale garantito dalla presenza di un gruppo assortito di maschi e femmine in tenuta di pelle e cuoio simil sadomaso. Il digitale viene usato dal regista per cercare di rendere una sensazione di straniamento (quando gli spiriti marziani guardano noi) e bisogna ammettere che l’esperimento è ottimamente riuscito. Finale, come spesso accade per questo autore fuori dalle pastoie hollywoodiane, apocalittico ed ironico nello stesso tempo e con una morale di fondo assai interessante: in tempi duri e difficili, una delle vie migliori per sopravvivere all’omologazione (l’invasamento da parte degli alieni) sembra essere l’assunzione di un qualche tipo di sostanza stupefacente (le pasticche che inghiotte Ballard), fatto che può essere inteso nel suo senso più diretto o metaforizzato (droga = cinema), fate voi.
Curiosità, errori e citazioni: Il film è stato girato nei pressi di una cava di gesso alla periferia di Albuquerque, Nuovo Messico, ma siccome il terreno si presentava bianco occorreva trattarlo ogni giorno con speciali coloranti rossi per alimenti, non nocivi. Prima di iniziare le riprese si dice che il regista abbia preteso una preghiera propiziatoria dallo sciamano di una vecchia tribù indiana dei dintorni. Colonna sonora dello stesso Carpenter, in questa occasione coadiuvato dalla metal band Anthrax, fan dichiarati del regista.
In questo caso mi trovo ancora più solo a difendere questo film ma le ragioni sono ben esposte nella recensione sopra riportata.
Voto 7 e consigliato a chi ama e conosce Carpenter.