Anche qua rientriamo nella categoria "indipendente/sperimentale/basso budget"? Ma di che parliamo, sempre i soliti tre?
Caprara:
Le ragazze che hanno intrapreso la strada del sesso compulsivo, anonimo e gratuito e si sono riunite nel club “Il piccolo gregge” intonano ieratiche la blasfema litania “Mea vulva, mea maxima vulva” e sullo stacco la voce fuori campo della protagonista intenta a rievocare la sua storia chiosa quasi con rabbia: “L’amore è lussuria più gelosia, il resto è sciocchezza”…
E’ una delle infinite sequenze collassanti di “Nymph()maniac”, il primo volume del racconto porno-filosofico di Lars von Trier (il secondo esce tra tre settimane) che non viene per unire, ma per dividere la gente. Del resto era ben noto il fatto che è possibile amare o detestare il regista di “Le onde del destino” e “Dogville” con la stessa intensità, ma anche impossibile sottovalutarne la ferocia creativa: in questo caso, però, la sfida è suprema, l’ambizione ciclopica e il risultato un punto di partenza, anziché di arrivo della storia del cinema inteso, parafrasando un’espressione di Cocteau, come visione del sesso (soprattutto femminile, come esplicita la grafia del titolo) al lavoro. C’entra poco il cosiddetto gusto del proibito, anche se sovrabbondano situazioni, atti e voyeurismi hard e del film esiste anche una versione non censurata, integrata da controfigure “specializzate” e per ora non distribuita in sala; von Trier, piuttosto, nel suo tentativo d’esplorare la teoria e la prassi sessuali delle donne -e per riflesso quelle più opache e meschine degli uomini- s’affida a svarianti, audaci e complesse chiavi narrative che vanno dalla lettura psicanalitica alle metafore colte, dal simbolismo numerico a quello fotografico, dal dialogo/dibattito in stile volterriano agli shock melodrammatici. In filigrana a un riepilogo delle avventure delle presunte perversioni femminili diventa, così, possibile percepire il segno della paura (e) del piacere dello stesso inafferrabile demiurgo, intensificati da uno stile modello docce scozzesi in cui, cioè, alle fasi gelide, divaganti e persino verbose e un po’ noiose si sovrappongono quelle fluide, veementi e liberatorie.
Basta la prima sequenza, comunque, a far capire di che insolito livello sia “Nymph()maniac”: una serie di carrellate che invitano lo spettatore a introdursi in un non-luogo urbano buio, deteriorato, percorso da rumori indistinti, cigolii sinistri, ruscelli di neve liquefatta e squarciato di colpo dalla musica rock metal dei Rammstein. Joe (Gainsbourg) è ferita e svenuta sulla strada, il solitario Seligman (Skarsgard) la raccoglie, porta a casa, rifocilla e accudisce; lei, in cambio, comincia a raccontargli la sua vita da ninfomane. Organizzato per capitoletti dai titoli spiazzanti e incline a sfrangiarsi in sovrimpressioni, inserti documentaristici, riproduzioni di stampe, accelerazioni, ingrandimenti e suddivisioni dello schermo, il mega-flashback vedrà il vecchio e asessuato ebreo opporre le sue riflessioni mai moralistiche, bensì tecnicamente gnoseologiche all’ossessione autopunitiva della donna. L’apprendistato di Joe è interpretato da un’attrice più giovane (Martin) che, come premesso, è colei che capeggia un manipolo di amiche e affiliate nella sfrenata caccia a tutte le opzioni erotiche e tutti i partner possibili con il ferreo patto di non sottomettersi mai a quel miserabile avatar chiamato amore. Non mancano almeno due sequenze di sapore bergmaniano: quella della moglie tradita che punisce il fedifrago, interpretata da una Thurman indescrivibilmente brava e quella della morte del padre stracolma di dettagli agghiaccianti. La “scorrettezza” estrema dell’apologo nutre anche la sua forza e la sua importanza, così come la sua ambiguità irrisolta e i suoi sardonici oscillamenti, lasciando le briciole allo spettatore che sollevi il comprensibile, ma non cruciale dubbio sul suo dna misogino oppure femminista: le uniche certezze disponibili sono, infatti, che Freud va in soffitta (casomai sostituito dal Bataille di “L’erotismo” e il Ballard di “Crash”) ed è nel caos dei desideri, anziché nell’armonia dei genitali che va cercato il segreto del sesso. La trilogia della depressione (dopo “Antichrist” e “Melancholia”) si conclude, dunque, in piena coerenza: in attesa dell’indispensabile seguito, è per adesso sommamente conturbante abbandonarsi al gioco cattivo del maestro.