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Reality
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Reality, di Matteo Garrone, 2012

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marenarobros
view post Posted on 10/7/2013, 14:34 by: marenarobros
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Cinefilo Ad Honorem

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«Nastro d’Argento come miglior attore dell’anno è Aniello Arena», annuncia la presentatrice e la platea del Teatro Antico di Taormina, quasi tutta cinematografica, esplode in un applauso affettuoso e commosso. Per Aniello Arena, ieri sera, è stato il momento più bello, dopo la stretta di mano del presidente Napolitano al Quirinale nella finale dei David un mese fa e dopo il Gran Prix di Cannes a maggio 2012. Sempre per "Reality", il film di Matteo Garrone di cui è il superbo protagonista.

Attore impeccabile, lodato, moderno, nuova star del cinema d’autore made in Italy, ha trovato nel cinema e nel teatro un mezzo di riscatto, un modo per coltivare la sua intelligenza, per diventare forte, tenace. Per salvarsi, come dice lui. Aniello Arena è un detenuto del carcere di Volterra, condannato all’ergastolo per omicidio: era l’8 gennaio del ’91, giovane camorrista napoletano, aveva 23 anni e fu coinvolto nella strage di piazza Crocelle a Barra, la periferia di Napoli dove è nato e cresciuto. Morirono tre persone. Da quel macigno, dalle notti brave, dai personaggi vacui e aggressivi di allora, Aniello si è allontanato come da un incubo irreale. Ha scontato più di vent’anni con buona condotta e, grazie all’articolo 21 del codice di procedura penale, oggi è in regime di semilibertà: ogni mattina esce alle 9.15, rientra alle 18.30. Lavora dirimpetto al carcere, a Carte Blanche, l’organizzazione della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, la più celebre e la più speciale delle realtà artistiche nate in carcere, dove dieci anni fa Aniello ha iniziato a recitare. E la sua vita mutilata è diventata un’altra cosa: la semplicità e la perfezione di Luciano, il pescivendolo di "Reality", i personaggi toccanti di Hamlice, Pinocchio, Pescecani, Mercuzio non vuole morire...
Tutti successi della Fortezza, che da quest’anno hanno anche girato, come una “normale” compagnia, in una vera tournée per i teatri: Firenze, Bologna, Roma... «Solo che la notte noi non andiamo in hotel, ma dormiamo nel carcere della città», dice con un tocco di autoironia Aniello, seduto davanti allo specchio nel camerino di un teatro romano.

Ha 45 anni e sembra più giovane in jeans e maglietta, fisico palestrato, non alto, sguardo molto sveglio. Risponde pacato, saldo, anche alle curiosità più futili sulla vita del carcere, mentre si percepisce l’emozione quando parla di teatro. «Sì, ora mi sento di dire che sono un attore. Una volta dicevo di no. Gli attori per me erano quelli che sono famosi, che leggiamo sui giornali. Io ero pieno di entusiasmo, ma tutto lì. Poi, però a un certo punto ci ho messo anche la testa. Forse è successo quando Matteo Garrone mi ha chiamato per il film. Non è che fino ad allora non mi sentissi attore, ma il cinema è stata una assunzione di responsabilità forte. Se prima giocavo, lì ho dovuto davvero fare l’attore».

A “scoprirlo” è stato Armando Punzo, l’iperattivo regista della Fortezza che ha cambiato profondamente il modo di fare teatro in carcere e da venticinque anni a Volterra lavora pionieristicamente con i detenuti «non per rieducare loro, ma per reinventare il teatro», come dice lui. «Quando sono arrivato io nel ’99, da Viterbo, dopo aver girato molte carceri, avevo già sentito parlare della compagnia. Ma ero in isolamento: nella condanna, un’altra tortura — ricorda Aniello —. E quando sei in isolamento devi reagire per non impazzire di rabbia. Io facevo ginnastica, leggevo libri, vedevo documentari. Parlavo con le guardie e aspettavo i colloqui ». Per fare teatro nella “fortezza” di Volterra era ed è ancora sufficiente presentare domanda di partecipazione. I detenuti e Punzo lavorano in una piccola stanza al piano terra. «Chi prova, difficilmente se ne va. Quando io sono sceso la prima volta, da napoletano pensavo che il teatro fosse la sceneggiata napoletana. Era quello che conoscevo, che avevo visto con mia madre da ragazzino. “Ma che cosa è?”, mi chiesi quando vidi cosa facevano. Mi pareva un altro pianeta. Ci ho messo un po’ per capire. Ho dovuto immagazzinare. Al primo spettacolo, nel 2002, dall’Opera da tre soldi di Brecht, ricordo, mi vergognavo come un matto a stare in scena. Mi chiedevo cosa avrebbero pensato quelli che avevano conosciuto da ragazzo.

C’è voluto tempo. C’è voluto il lavoro con Armando, il nostro regista. Lui ti fa uscire quello che hai dentro, lavora su di te, su quello che sei. Io fino a quel momento non avevo avuto strumenti per capire. Il teatro invece mi ha dato la possibilità di vedere. Attraverso i personaggi, attraverso le parole degli autori ho dissotterrato cose di me che mi hanno aiutato. Non è facile. Noi, poi, lavoriamo in una stanzetta piccola e siamo tanti. Da maggio a luglio, come adesso, quando stiamo per arrivare allo spettacolo, siamo una cinquantina e quasi non ci si può muovere. Per questo Armando si batte per far diventare la nostra compagnia un “teatro stabile”: per una sala da costruire ex novo nella parte esterna del carcere, e avere più spazio. Questo non vuol dire che lasceremo la “nostra” stanza. Per noi è il luogo della condivisione del gruppo. Lavorare sotto lo sguardo degli altri è qualcosa di particolare e i detenuti sono spietati, anche se con affetto. Sai a priori che non devi sbagliare perché dopo ti fanno nuovo nuovo».

La vita del carcere per Aniello è vita domestica. «Da quando sono passato nella sezione dei semiliberi siamo in due in cella, una cella grande, mentre prima di là, nella sezione interni, ero da solo, perché a Volterra tutte le celle sono singole. Che fai? Diventi casalingo. Dicono che noi del reparto maschile siamo maniaci, se potessimo metteremmo le pattine ai piedi. Rifai il letto, pulisci il pavimento. Ti organizzi per la spesa, perché si fa una volta alla settimana, quindi per il giorno del turno devi dare alle guardie la nota di quello che ti serve, se no sono altri sette giorni: detersivi, schiuma da barba, strofinacci per lavare a terra, la bomboletta del gas, l’acqua, il caffè».

Aniello è stato arrestato nel gennaio del ’93, due anni dopo l’omicidio. «Non ne parliamo», implora, più per non avvilire quello che è oggi che per autoindulgenza. Non si trova attenuanti. «A Barra, periferia di Napoli non è che ho avuto un’infanzia chissà che. Forse un po’ travagliata, forse la mia famiglia era un po’ disagiata, forse l’ambiente in cui sono cresciuto, Napoli... Non voglio giustificarmi, lo dico per raccontare di me. Il carcere è un destino obbligato se da ragazzo non capisci niente, non rifletti. Io pensavo che il mondo ce l’avesse con me e di conseguenza io ce l’avevo con lui. Capivo poco e agivo. Ero un impulsivo. Lo sono anche adesso, ma rifletto di più».

Racconta che quando entrò a Poggioreale a venticinque anni, pensò che la sua vita fosse finita lì. «Il carcere di Napoli era come l’inferno. Se sei un ragazzo che ha accumulato odio e finisci lì, Poggioreale genera mostri. Ho incontrato ragazzi che sono solo peggiorati. Ai tempi miei eravamo anche venti in una cella. Forse qualcosa è cambiato, ma il trasferimento è stata la mia fortuna».

Anche per questo a Napoli non ci tornerà più. I due figli, un maschio e una femmina di ventidue e venticinque anni, orgogliosi del suo successo, vivono anche loro fuori Napoli. E dalla moglie si è separato. «Sono napoletano e sono fiero di esserlo, ma vivere lì no. Non mi appartiene più come città. Sono cambiato e per come sono oggi non riuscirei a vivere in una città che è difficile, ferma nei suoi meccanismi». Se un giorno uscirà, dice, gli piacerebbe andare a Firenze o nel nord o dove lo porterà il teatro, il cinema, la notorietà. Dopo Cannes lo hanno cercato giornalisti e tv di mezza Europa. Questa estate reciterà nell’atteso "Santo Genet commediante e martire" diretto da Armando Punzo, il nuovo spettacolo della Compagnia che festeggia i venticinque anni di attività e che sarà il cuore, dal 18 al 26 luglio, del Festival di Volterra, evento davvero unico perché tutto si svolgerà nel carcere, spettacoli, artisti, spettatori tutti nella Fortezza (per entrare bisogna chiedere i permessi su www.compagniadellafortezza. org) e intanto sta ultimando un libro sulla sua vita che uscirà in autunno da Rizzoli Controtempo, a cura di Maria Cristina Olati.

La domanda forse è ingenua: mai pensato di scappare durante una delle tournée? La risposta è semplice, senza ambiguità: «E a che servirebbe? Dovresti scappare sempre. E come vivresti a quel punto? La prigione sarebbe dentro di te. No, spero di poter uscire con i benefici di legge, se ce la faccio. Ottimista? Quando ero ragazzo vedevo tutto nero. Ed essendo napoletano dico che uno alla fine il nero se lo tira addosso. Quindi ho imparato a liberarmi delle ombre. Ho imparato a trasformare la rabbia in passione».
 
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