La vita del Dalai Lama, da quando viene scelto, bambino, nel 1937, dal ricco nobile Reting Ringpoce per divenire il nuovo capo della religione buddhista tibetana e capo di stato della nazione. Il suo addestramento alla scuola dei monaci, il modo in cui impara a gestire il suo ruolo, fino a quando, divenuto adulto, nel 1949-50 deve fronteggiare l'invasione cinese, che lo costringerà alla fine a scappare.
Melissa Mathison stava ancora lavorando alla sceneggiatura di
E.T. di Spielberg quando incontrò il Dalai Lama. Suggestionata dall'incontro, gli chiese di poter fare un film sulla sua vita, ricevendone la benedizione e i consigli. Su suo suggerimento, la Disney, produttrice del film sotto l'egida Touchstone Pictures, sentì se Martin voleva dirigere il film. Probabilmente suggestionato dall'idea di un viaggio interiore ed esteriore in un mondo differente e affascinante, il genio, appena reduce dall'immane
Casinò e in vena di sperimentazioni, accettò, e tornò a girare in Marocco a quasi dieci anni di distanza dall'
Ultima tentazione di Cristo, il suo primo grande film religioso. I problemi sorsero quando la Cina, in maniera prevedibile, si arrabbiò per l'iniziativa, addirittura minacciando di non distribuire più i prodotti Disney nel paese: risultato fu che il film ricevette pochissima pubblicità, e ancora oggi passa inosservato.
Il film di Martin sicuramente più tranquillo, meno tormentato. Scorsese mette in scena una ricostruzione da Oscar (Dante Ferretti è alla scenografia) del Tibet, e invece di affogare lo schermo con grandi scene di massa ed enormi parate preferisce costruire tutto sull'introspezione del giovane Dalai Lama, nel suo tentativo di confrontarsi e rispondere ai mali che assillano il suo popolo. Scatta immediato il confronto con quel capolavoro che è
L'ultima tentazione di Cristo, ma qui la sensibilità è diversa: la storia di Gesù aveva come sottofondo la cultura cristiana (cattolica e protestante) dell'autore, la cultura occidentale dell'individualismo umano e straziante di fronte al mistero divino; quella del Dalai Lama ha invece a base la serenità orientale di chi si sottomette al corso delle cose pur combattendo l'ingiustizia. In questo, manca effettivamente di emozione, e il film finisce per risultare lievemente freddo, ma rappresenta uno dei migliori film sull'Oriente mai fatti da noi. Ancora una volta, un film per commissione, però fatto anche stavolta maledettamente bene.