| uno dei film più belli della stagione e uno dei film più belli dei Coen in assoluto. Vistoc he c'è il topic inserisco qui la mia rece al film, da non legegre se non dopo la visione perchè contiene SPOILER
Quella domanda sospesa alla fine di Burn after Reading – un film parentesi, di transizione, ma anche un film tra parentesi, racchiuso tra due zoom satellitari – che ammetteva di non sapere che cosa sia stato fatto, proiettando tutto verso l’ignoto, in A Serious Man trova la sua risposta; “Che cosa abbiamo fatto?”: “Non abbiamo fatto niente”. “Non abbiamo fatto niente”: come una ossessiva cantilena fanciullesca la frase ritorna continuamente, ora quando Larry viene informato dalla moglie di volere il divorzio, ora davanti l’avvocato o davanti il rabbino di turno, ora la telefono con l’operatore di uno di quei club per corrispondenza che una volta iscritti mandano la merce senza che nessuno lo richieda; “Non ho fatto niente!” urla disperato Larry, “Esatto, proprio perché non ha fatto niente riceve il disco”, risponde serafico l’operatore. Siamo al paradosso. Il processo decostruttivo della narrazione e dei generi portato avanti dai fratelli Coen giunge ora a compimento: scompare il lavoro sui generi, la narrazione si ritorce su se stessa, i personaggi vengono completamente svuotati fino a trasformarsi, da motori della narrazione (per quanto motori mossi da scopi futili: da Fargo a Burn after Reading) a vittime della narrazione. Niente per quanto effimero li guida, anzi, ora non hanno fatto proprio niente (se non qualcosa che si perde nel tempo e nello spazio – vedi il prologo), semplicemente subiscono in attesa che tutto finisca. Apre il film un prologo ambientato in Polonia, un secolo prima dei fatti narrati dai Coen (Minneapolis, 1967) e recitato in Yiddish: in una casa vicino Lublino si consuma, dopo una sua improvvisa visita, l’assassinio (?) di un presunto dybbuk (l’anima di un defunto che tenta di impossessarsi di una persona in vita) che sanguinante, ma ancora in vita esce dalla casa, scomparendo tra la neve e il buio della strada, lasciando indeterminato sia il suo destino (è morto, non lo è?), sia il suo essere o meno un dybbuk (nei titoli di coda verrà presentato come “Dybbuk?”: riecheggia il personaggio di Mistery Man in Strade perdute di Lynch - anch’esso viene lasciato indeterminato e senza nome). La porta della casa viene chiusa e lo schermo va a nero, dando il via ad una ellissi temporale di ampio respiro, che attraversa lo spazio e il tempo, fino a divenire carrellata verso un cerchio, un buco, un tubo, della luce, quindi in controcampo, si scopre di aver viaggiato dal cervello fino all’orecchio entro cui sta un auricolare di una piccola radiolina: siamo in una classe durante l’ora di ebraico, Minneapolis, 1967. Questa lunga ellissi/carrellata (lungo i quali compaiono come suoni i titoli di testa, mentre il personaggio entro cui viaggiamo sente “Don't you want somebody to love” dei Jefferson Airplane – siamo alla sovrapposizione tra la musica extradiegetica e la musica diegetica) è l’unico elemento narrativo lineare del film, che come freccia si scaglia con la struttura principale della narrazione, che invece viene a darsi come speculare e (apparentemente) circolare. Riassunto del film e delle sue tematiche (l’indeterminazione, la probabilità, l’essere vittima degli eventi) e causa prima della narrazione (il dybbuk come sorta di peccato originale che ci portiamo appresso dall’alba dei tempi - e che dobbiamo in qualche modo sopportare: paghiamo per qualcosa che non abbiamo effettivamente commesso,c ome Larry -, e che nel prologo viene semplicemente reiterato – il suo presunto assassinio, che sia o non sia un dibbuk – che è comunque rimandato continuamente all’indietro, all’infinito, come in una contro-ellissi fuoricampo), il prologo funge da prefazione al film (staccato, quindi, dalla narrazione del film: non è una cornice) e allo stesso tempo da detonatore che come una debole radiazione di fondo attraversa tutto il film, ponendosi come base e giustificazione di quanti effettivamente accade nel film, divenendone l’occhio del ciclone attorno al quale si attorcigliano le spire della narrazione. Gli eventi procedono a specchio fino a quando non trovano esatta compenetrazione nel montaggio alternato dei due incidenti (dagli esiti diversi: il cerchio diventa da qui spirale), vero e proprio fulcro del rivolgimento narrativo che segna il limite dello specchio e la rottura della circolarità verso l’alto, dando vita ad una specularità a chiocciola che troverà la sua massima espressione nel finale dove la specularità si fa sempre più precisa materializzandosi e concretizzandosi nel linguaggio filmico, nell’inquadratura, nel montaggio – la scena del rabbino che ridà la radiolina al ragazzo, citando perfino gli Airplane, fa da specchio a quella dove la stessa radiolina viene sequestrata, mentre il successivo montaggio alternato tra padre e figlio fa da riflesso distorto e innalzato di un livello dello stesso montaggio alternato dell’inizio. Rispetto all’incipit, nonostante le situazioni narrative di partenza siano le stesse (Il ragazzo che ascolta la radio in classe che viene sorpreso dal professore, una normale visita medica dove si scopre di stare bene, il tentativo maldestro da parte di uno studente di corrompere Larry per passare l’esame) ora sono rovesciate (vanno all’indietro, in countdown) e tutte aggravate, trasformando la circolarità in un tornado, lo stesso che si prospetterà all’orizzonte dell’ultima inquadratura, in attesa dell’abisso. “Accogli con semplicità tutto ciò che ti succede”, avverte e invita l’epigrafe che apre il film. Già, perché, in realtà – ci dicono i Coen – non avete ancora visto niente: il peggio deve ancora venire.
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