Lentamente, tempo e tesi di laurea permettendo, il mio trip scorsesiano va avanti. Con questo capolavoro assoluto.
"Per quanto mi ricordi, ho sempre desiderato essere un gangster": si presenta così l'italo-irlandese Henry Hill (Ray Liotta), pentito, nell'iniziare il racconto dei suoi trent'anni di vita e carriera nella mafia italiana, all'ombra del boss Paulie Cicero (Paul Sorvino), sorretto dall'amicizia e complicità del ladro professionista James Conway (Robert DeNiro) e del coetaneo schizofrenico Tommy DeVito (Joe Pesci). Trent'anni di affari, soldi, colpi grossi e piccoli, omicidi più o meno intenzionali, un matrimonio con l'ebrea Karen (Lorraine Bracco) e alcune amanti...finché non va tutto a rotoli per colpa di un traffico di droga che Henry ha messo su senza avvisare Paulie.
Tornato dall'inferno (in tutti i sensi) dell'
Ultima tentazione di Cristo, Martin fa un salto a casa e, a 17 anni di distanza da
Mean Streets, eccolo parlare di nuovo della piccola criminalità in mezzo alla quale era cresciuto, con l'aiuto dello scrittore di Nicholas Pileggi, autore del romanzo
Wiseguy basato sulla vita del vero pentito Henry Hill, e a cui Martin fece guardare numerosi film della Nouvelle Vague per farli capire che tono doveva avere la sceneggiatura. E' anche il film che, dopo sette anni, riporta Martin a lavorare con Bob, ricostituendo la "coppia d'oro" di
Taxi Driver e
Toro scatenato, solo che stavolta Bob è controllato e accetta di stare dentro a un copione, invece di imporlo lui (l'errore che aveva rovinato
Re per una notte); e per l'occasione torna anche Joe Pesci, che per il film vinse un meritatissimo Oscar come miglior attore non protagonista. Gran parte dei dialoghi del film furono addirittura improvvisati da un cast affiatato e sicuro del lavoro che stava facendo, un toccasana per i nervi a pezzi di chi aveva appena finito uno dei film più difficili della storia. Al box office, il film fu un successo, agli Oscar purtroppo no.
Quando ho detto che con questo film inizia la fase del Scorsese "classico", intendevo che, da adesso in poi, i film di Martin saranno sempre più immuni dallo sperimentalismo estremo degli anni '70-'80, e invece cominceranno a sedimentarsi e calmarsi in un "neoclassicismo", una struttura più armonica rispetto al passato, storie più lineari, ambientazioni non più (o non solo) metropolitane e decadute ma anche ricche, piene di décor e di stile. E anche la cinefilia dell'Autore prenderà sempre più piede, ricreerà generi (il film in costume con l'
Età dell'innocenza, quello storico con
Gangs of New York) e si porrà sempre più in linea di successione con il grande cinema americano classico (il confronto diretto avverrà, significativamente, con
The Aviator). Ciò non significa che i risultati di questa seconda fase siano inferiori a quelli della prima, anzi tre fra i primi quattro risultati (questo film,
L'età dell'innocenza e
Casinò) sono fra le vette della sua carriera.
Forse il più bel
gangster movie di sempre, certo un incrocio perfetto fra documentario e finzione, un film fluido, perfetto nel suo scorrere di situazione in situazione, sussultorio, a episodi, fuori da ogni schema di trama come i suoi personaggi che sono fuori da ogni schema di vita normale per noi e, anzi, ci deridono. Operai della mafia che mai diventeranno padrini, lontani anni luce dai raffinati Corleone di Coppola, sono per questo molto più veri, reali, umani, nelle loro ambizioni frustrate, nella loro esistenza vicina alla nostra, in un mondo che si sono eretti a loro immagine e somiglianza e che, proprio per questo, li tradirà. Musica, VFC e dialoghi si armonizzano alla perfezione, dando spazio a un grandissimo Ray Liotta, che non soffre affatto nel confronto con i mostri sacri DeNiro e Pesci. Un film da vedere e rivedere.