| ROMA - «Con "La grande bellezza" è stato premiato il coraggio, spero serva da incentivo al cinema italiano». Quella di Paolo Sorrentino, vincitore di quattro Oscar europei sabato sera a Berlino, è un augurio ambiguo. Il regista ha brindato alla vittoria con Martin Scorsese e gli altri membri di giuria del Festival di Marrakesh, in Marocco.
Sorrentino, il cinema italiano manca di coraggio? «Uno dei fattori di impoverimento del nostro cinema deriva dal fatto che, con la crisi e la scarse risorse, i registi e gli inventori di storie hanno ripiegato su “cavalli sicuri”. Ecco quindi l’esplosione della commedia e il ridimensionamento di tutto quello che non lo è e che comporta qualche rischio. In queste condizioni diventa oggettivamente difficile realizzare un’opera prima degna di questo nome, piuttosto che un film amatoriale spacciato per professionale».
Il coraggio paga? «Sì, il mio film può piacere o no, ma anche la nutrita schiera di detrattori gli riconosce l’essersi preso rischi sul linguaggio, l’azzardo di uscire dal seminato del realismo. Al momento difficile non si reagisce con il pessimismo ma con l’ambizione. Non c’è niente di male a usare questa parola. Certo, c’è il rischio di esporsi al fallimento, alla denigrazione. Ma anche di fare qualcosa che rimane».
Mai avuto paura del fallimento, del ridicolo? «Per me fare un film è divertente solo quando è azzardo e ambizione, altrimenti ripiegherei sulla scrittura, da dove vengo. Mi piace coltivare l’illusione di poter fare un grande film. Di fronte alla paura si cerca di piacere a tutti, si appiattisce il linguaggio, si scende a compromessi. La commedia garantisce una boccata d’ossigeno al cinema italiano, è bene che ci sia. Ma non c’è solo questo. E azzardo non significa fallimento economico, lo dimostrano "Gomorra", "La migliore offerta", "La grande bellezza" ».
Facciamo qualche conto. «Sì, ma facciamoli bene, perché troppo spesso si fanno i conti su quando guadagna il film solo in base agli incassi in sala. "La grande bellezza" è costato otto milioni di euro. Ai sette incassati in sala vanno aggiunte le vendite all’estero, i diritti televisivi, i dvd. Un buon risultato. È il segnale che bisogna ritrovare quel coraggio che è stata una risorsa del nostro cinema, quello irripetibile di maestri come Leone, Fellini, Bellocchio, Bertolucci. Penso alla libertà di Nanni Moretti in "Palombella rossa". Opere possibili perché sostenute, malgrado l’alto rischio. La deriva più pericolosa è l’autocensura dei narratori, la riproposizione di un modello stantio e asfittico di commedia che sembra essere l’unica possibilità di cinema».
Chi sono i coraggiosi della sua generazione? «Matteo Garrone, per linguaggio e stile. Giuseppe Tornatore, capace di passare da un affresco come "Baarìa" a un film di genere. Valeria Golino che ha debuttato con "Miele", progetto inseguito da anni, e Valerio Mieli, regista di un solo film, "Dieci inverni", ha osato fare un genere quasi dimenticato, un film sentimentale nella più nitida delle definizioni ».
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