| Devo recuperarlo. Valerio Caprara ne ha scritto così: CITAZIONE Allo Jimmy Stewart di “Mr. Smith va a Washington” di Capra bastava concentrarsi davanti alla sua statua per scegliersi un destino. Nessuno meglio di Henry Fonda poteva incarnarlo in trance mitopoietica nel classico fordiano “Alba di gloria”. E’ logico, in effetti, che al presidente Lincoln soltanto una divinità di Hollywood come Spielberg è potuto tornare a rivolgersi e ad affidarne la gloriosa quanto ingombrante icona a un mattatore oscarizzato come Daniel Day-Lewis. Vogliamo dire, in tutta franchezza, che questo tipo d’operazione incuneata nel nucleo originario del patriottismo Usa era e resta esattamente quella che può ambire alla conquista dei cuori e delle menti degli spettatori, delle classifiche d’incassi e dei voti per gareggiare agli Oscar. Con la fervida e competente complicità dello sceneggiatore Tony Kushner (a sua volta ispirato da un libro della storica Doris Kearns Goodwin) l’onnipotente Steven ha, però, imboccato una strada rinomata ricorrendo a una prospettiva e un taglio pericolosi sul piano dello spettacolo, causidici su quello dell’intreccio e plateali su quello della cruciale metafora. La tentazione di affermare che non si potrà assistere all’ennesima biografia del sedicesimo presidente, bensì alla ricostruzione filmica sotto copertura delle ultime e tormentose opzioni strategiche di di Obama è forte e fortemente motivata. Ma certo Spielberg, al di là delle fortune contingenti, merita senz’altro che quest’amara deduzione non venga sovrapposta alle ragioni estetiche del suo thriller politico in costume. Dopo l’unica e fugace scena di battaglia del prologo, ci si ritrova immersi nell’impasse del gennaio 1865 quando l’appena rieletto Abraham sta per vincere la sanguinosa guerra di Secessione, ma preferisce concentrarsi sulla lotta parlamentare per l’inserimento del 13° emendamento che abolisce la schiavitù nella Costituzione. Sin dall’inizio si capisce come l’attore anglo-irlandese, bravissimo e bellissimo, impegnatissimo e snobissimo, abbia scelto la soluzione dell’incarnazione maniacalmente perfezionistica: per chi ama il procedimento iper-mimetico è impressionante vedere materializzarsi l’alta e incurvata figura dell’eroe come ce l’hanno tramandata le fotografie (ma c’è anche somiglianza con l’Achab del film di Huston sulla balena bianca melvilliana) , le sue guance scavate, la sua fatidica barbetta, lo scialletto casalingo appoggiato sulle spalle, il suo spropositato cappello a cilindro e il suo sguardo pacato ma fermissimo puntato sull’inevitabilità della missione. Peccato che i dialoghi debordino da ogni angolo dell’inquadratura, si perdano nei rivoli delle opposte pregiudiziali, inondino anche le caratterizzazioni collaterali e acquistino un bagliore di vitalità soltanto quando riproducono gli aneddoti e le parabole di cui Lincoln era un instancabile forgiatore (“Lo so che potrei fare sermoni più brevi, ma, una volta che ho iniziato, sono troppo pigro per fermarmi”). E’ una lezione di realismo spregiudicato, dunque, quella che traspare con sin troppa evidenza in un tripudio di colori caldi d’interni, di costumi tratti dai dipinti della scuola americana, di carrellate sui banchi della Camera dei Rappresentanti dove democratici e repubblicani si scambiano i ruoli politici tradizionali, si contano con isterica suspense, s’interrogano sulla coscienza strattonata dall’interesse di classe. Spielberg non ha dubbi nello sfrondare l’agiografia lincolniana d’infimo grado per poterla rifondare sulle basi di un’intelligenza tattica spinta al di là della morale: se è necessario ricattare, corrompere o subornare psicologicamente un deputato avversario, il presidente non esiterà a farlo fare mantenendo il finto-bonario sorriso sulle labbra e l’aria accattivante del campagnolo del Kentucky vicino all’uomo della strada. Eccolo stagliato contro le tende della sua magione sempre in penombra, inginocchiato per giocare col bambino e soprattutto seduto o in piedi a fronteggiare la moglie Maria (Sally Field) esacerbata dal lutto di un altro figlio perduto… Ed ecco, soggiogati dalla sua nobiltà d’animo senza fronzoli, gli assoli concessi al segretario di Stato Seward (David Straithairn) o al sarcastico e misantropo repubblicano Stevens (Tommy Lee Jones): purtroppo “Lincoln”, anche se vorrebbe mantenersi in linea –persino stilistica- con l’idealismo pragmatico propugnato in nome della democrazia, finisce per immiserirsi via via che i buoni un po’ birichini prendono il sopravvento sui cattivi incanagliti. La retorica spielberghiana, va da sé, ha profonde e ricche radici espressive, è figlia del melodramma primigenio alla Griffith (che non a caso dedica al presidente qualche immagine del capodopera “Nascita di una nazione” e tutto il suo penultimo film “Il cavaliere della libertà”) e ha qua e là la forza di librarsi –specie col montaggio alternato in sottofinale della seduta decisiva, con la gente che sbarra le asticelle dei sì e dei no nei più disparati ambienti- sulla staticità e la magniloquenza complessive. Però, peccato, l’ammirazione anche per i fan di Abraham-Barack stavolta non ha la chance di trasformarsi in emozione. e un guzzano "fiume" (mi sa che ha un debole per Spielberg nonostante tutto): CITAZIONE Ho iniziato a guardare “Lincoln” come non si deve, pensando ad altro, dedicandogli la coda dell'occhio con cui si bada che dei bimbi diligenti non facciano danni in salotto sapendo bene che non ne faranno. Questo perché non amo i biopic (dicasi: biografie), meno che mai se iniziate tra il fango dei cannoni e (a lungo) proseguite tra quello della politica. Ma come ho potuto pensare che Sua Maestà Steven Spielberg girasse solo una – seppur monumentale – biografia? O meglio, la biografia di un uomo solo al comando senza descrivere magistralmente nel frattempo al comando di cosa e perché (famiglia, politica, etica, interessi, nazione, popolo, democrazia). “Lincoln” non sbaglia un tempo, un gioco di potere, un retropassaggio, una faccia. Inutile dire di Daniel Day-Lewis, attore maniacale che gira un film al lustro: questo l'ha rifiutato a lungo e poi vi si è immerso al punto da farsi chiamare Mr. President sul set persino dal regista più famoso del mondo. Ma ecco l'apprensione di Sally Field, l'oratoria farabutta di Tommy Lee Jones, le canagliate di James Spader, la fisicità belligerante di Joseph Gordon Lewitt e David Strathairn. Giunto al bivio tra Storia e Leggenda, Spielberg si fa umile e tira dritto come una diligenza che ha imboccato la pista giusta anche se non sa quale sia (quella di mezzo?). Retorica? Poca. Schiavitù stesa al sole? Meglio Tarantino, certo. Ma il 16esimo presidente degli Stati Uniti, qui ritratto nei pochi mesi cruciali in cui la Guerra Civile si combatté soprattutto a parole, ne esce come un monumento di determinazione e tormenti che arricchisce la Storia del Cinema, prima che la didattica. Spielberg cerca in lui un'umanità notturna (ai limiti del buio) che faccia da contrasto al chiarore degli ideali. Sono vezzi d'Autore. Il resto è un'opera possente scritta con mano avvolgente dall'autore di “Angels in America”. Darà fiato alle trombe patriottiche e agli Oscar al di là dell'oceano dove ri-giura Obama, ma è il Vecchio Continente il suo palcoscenico naturale. La landa frammentata alla quale fu detto che sarebbe stata beata se non avesse avuto bisogno di eroi. E non era vero.
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