| Giulio Andreotti, dai "panni sporchi" al Tassinaro: un Divo anche per il cinema Morto a Roma, a 94 anni, un grande protagonista della scena politica italiana dalla Costituente a oggi. Un rapporto lungo anche con il grande schermo: da quel giudizio, poi ritirato, sul cinema neorealista ("i panni sporchi si lavano in famiglia") fino al film di Paolo Sorrentino di CLAUDIA MORGOGLIONE
Sul grande schermo, nel ruolo di se stesso, è apparso una volta sola. Correva l'anno 1983, il film era Il Tassinaro, e lui, Giulio Andreotti - potentissimo leader Dc, in un'Italia che sembrava destinata a "morire democristiana" - entrava nella vettura pubblica guidata da Alberto Sordi, chiacchierando col conducente di calcio e di politica. Una sequenza che è l'omaggio di un simbolo della romanità a un'altra icona capitolina. Ma, al di là di questo cameo, c'è da dire che il rapporto tra il sette volte presidente del Consiglio e il cinema è stato sempre forte, intenso. Soprattutto in due momenti clou: agli inizi della carriera governativa, quando era sottosegretario addetto alla gestione (e alla censura) del settore; e negli ultimi anni di vita, in cui la sua immagine si è inevitabilmente sovrapposta a quella del Divo raccontato da Paolo Sorrentino.
Si svolge dunque tra questi due estremi, il complesso e a tratti tormentato legame che ha unito il senatore a vita appena scomparso al mondo della cultura e dello spettacolo. Legame d'amore, in primo luogo: Andreotti non ha mai nascosto la sua passione per la settima arte, è stato un frequentatore ininterrotto di salotti televisivi, e qualche anno fa ha perfino prestato immagine e voce per alcuni spot della Diner's. Ma quella con lo showbiz italico non è stata una relazione tranquilla. Ha avuto asprezze, incomprensioni, complicazioni. Fin dalle origini. E cioè quando lui, il trentaduenne delfino di Alcide De Gasperi, viene nominato sottosegretario.
E' il 1951, ed è lo stesso De Gasperi presidente del Consiglio (che definisce il cinema, con diffidenza, "questa vostra lanterna magica") ad affidargli la delega allo Spettacolo. L'incarico dura due anni, durante i quali la "manina" di Andreotti (tanto per citare la celebre, futura allusione craxiana) si fa sentire, eccome. Perché il neo-sottosegretario, che già tanto si era adoperato per riaprire gli studi di Cinecittà diventati rifugio di sfollati, comincia a promuovere concretamente il cinema nazionale: stabilendo, ad esempio, che le produzioni americane devono versare allo Stato italiano una parte degli utili provenienti dal botteghino; o contribuendo a fare aprire duemila sale parrocchiali.
Ma non è per queste misure promozionali che la sua opera giovanile sul cinema è passata alla storia: democristiano puro, da sempre espressione e portavoce degli interessi vaticani nella politica nostrana, il non ancora divo Giulio diventa infatti, in quel periodo, l'incarnazione vivente della censura e del perbenismo applicati al cinema. Mai mostrare qualcosa di pruriginoso, mai parlare di problemi troppo laceranti, o a sfondo politico. Da qui la celebre battuta che avrebbe pronunciato in polemica con il neorealismo italiano: "I panni sporchi si lavano in famiglia". Una frase poi smentita, ma senza troppa convinzione. Anche perché il giudizio andreottiano sul movimento cinematografico che ha segnato il nostro dopoguerra è scritto nero su bianco, in un articolo scritto per il quotidiano della Dc Il Popolo: "Se nel mondo si sarà indotti erroneamente a credere che quella di Umberto D è l'Italia... De Sica avrà reso un pessimo servizio alla patria". Parole che tristemente ricordano quelle recenti di Silvio Berlusconi su Gomorra, e perfino su La Piovra.
Sul fronte della censura, dunque, in quegli anni il futuro sette volte premier è molto attivo: più con la carota della persuasione e della dissuasione, che col bastone dei divieti imposti con la forza. E su questo fronte, come in tanti altri campi della sua vita, l'aneddotica abbonda: ad esempio, si sa che una volta convince a cambiare una battuta di Totò su De Gasperi in una, identica, su Bartali, con un doppiaggio postumo. E si sa anche che, nella competizione tra le due bellezze nostrane Sophia Loren e Gina Lollobrigida, lui - da sempre ammiratore del fascino femminile - non fa mistero di preferire decisamente la Lollo. Dettagli che lo stesso Andreotti rivelerà, molti anni dopo, a Tatti Sanguineti e Pierluigi Raffaelli, nel corso di un'intervista-fiume dedicata proprio al suo rapporto col cinema, per un dvd che finora non è stato pubblicato.
Un legame con la settima arte che continua anche quando l'incarico specifico sullo Spettacolo viene abbandonato per altre e più prestigiose poltrone. In primo luogo, perché il cattolicissimo Giulio continua a essere considerato, di fatto, l'ambasciatore della Santa Sede presso il settore. E poi perché Andreotti può contare, all'interno di quel mondo, sull'amicizia e la lealtà di Gian Luigi Rondi, critico e collezionatore di poltrone cinematografiche.
Gli anni intanto passano, tra presidenze del Consiglio e ministeri chiave. L'Italia attraversa le stragi, la strategia della tensione, il terrorismo, la P2. E lui, Giulio, è sempre lì, ai vertici del potere. Ma poi Tangentopoli travolge tutto, arrivano le inchieste giudiziarie, lui perde molto, forse tutto. Gli restano le innumerevoli comparsate televisive, a cui non rinuncia mai, anche dopo la fine delle sue disavventure in tribunale e la nomina a senatore a vita.
Ma è il momento forse più interessante della sua carriera politica, quello della caduta nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, che molti anni dopo (2008) Paolo Sorrentino sceglie di raccontare, in un film bellissimo e plurimpremiato come Il Divo (2008). Rivitazione della storia patria in nero: e al centro lui, il leader più enigmatico, impassibile e cinico (anche se ritratto in modo molto, troppo umano), coinvolto in un turbine di scandali e sangue. Andreotti, che sullo schermo viene interpretato da un camaleontico Toni Servillo, vede in anteprima la pellicola, insieme al cronista di Repubblica Goffredo De Marchis e al fido Rondi, e sbotta: "Maligno, una mascalzonata. Si può dire che è bello, ma a me dell'estetica non frega niente". Salvo poi riconquistare il consueto aplomb, pochi giorni più tardi: "No, non è una mascalzonata", rettifica.
Eppure, nella sua lucida spietatezza, Il Divo rappresenta per lui un perfetto canto del cigno. Perché, in chiaroscuro, sistematizza in modo pressoché definitivo la leggenda andreottiana: con la celebrazione della sua grandezza, anche se controversa; e col rimarcarne il ruolo di protagonista assoluto della vicenda italiana. Tra storia e quel tocco di metafisica che a lui, Giulio, certo non dispiaceva.
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