Ok, allora. Non faccio il mio format solito perché è quello è riservato ai "percorsi" (ovvero quando vado a rivedere tutta l'opera di un regista, o un genere), ma due parole le dico anch'io, dopo averlo visto la seconda volta ieri sera in televisione.
La prima volta che l'ho visto, la delusione è stata tanta, perché mi aspettavo un capolavoro. Di P. T. io ho visto solo Boogie Nights, lo ammetto, ma quest'ultimo è un film che adoro in ogni inquadratura. Il resto non l'avevo presente, ma mi fidavo abbastanza del giudizio dei cinematikini e di buona parte della critica per avere buone aspettative. Invece, alla fine della visione, sono rimasto con una strana impressione di incompletezza, come se il film mi avesse trasmesso qualcosa, ma in modo incompiuto e smozzicato, evanescente. Tuttavia, ho pensato di averlo capito male io, di non essere stato capace di entrare nel gioco, insomma di essermi preparato male. Ho alzato le spalle e ho aspettato la seconda visione. Adesso, dopo la seconda visione, il film l'ho capito un po' di più, ma la delusione non è diminuita, tant'è che mi ritrovo a condividere alcune delle critiche postate da Papele.
Mi trovo quindi a dover dividere la mia opinione su due piani: quello intellettuale e razionale e quello emotivo. Chiarisco subito che, per essere capolavoro, a mio parere deve stimolare, in positivo e/o in negativo, e l'uno e l'altro.
Piano intellettuale, quindi. Su quel piano, il film è soddisfacente. Il rapporto Freddie/Lancaster, rapporto fra due anime ossessionate e tormentate da demoni, uno tendente al "basso" dell'animale e del sesso, l'altro in cerca delle altezze di una (ipotetica) vita più grande della nostra, dipinge molto bene un'ansia di redenzione, di cura, che pervade tutto il film. Persi in un mondo, come quello degli USA anni '50, che è appena uscito dallo shock della seconda guerra mondiale e tenta di venire a patti con le sue conseguenze, in un certo senso ne incarnano due reazioni distinte, che si affascinano l'un l'altro. L'intellettuale vorrebbe ripudiare l'animalità ma ne è (in)consciamente attratto, il rozzo ex marinaio sente il richiamo di qualcosa di più alto ma non prova una vera volontà di cura. Sono entrambi alla ricerca di un padrone: "The Master", appunto, termine che in inglese vuol dire sia "maestro" sia "padrone" (risentirsi Il Signore degli Anelli per conferma: è il modo con cui Sam e Gollum chiamano Frodo). Lo trovano l'uno nell'altro, per un po', ma solo per un po', prima che entrambi si accorgano come quel maestro sia fallace (rivelatrici le scene, a questo proposito, di Lancaster che si rifiuta di argomentare razionalmente le sue teorie, con Freddie che, agendo come sua proiezione, picchia gli oppositori esaudendone i probabili desideri inconsci). E si ritrovano come all'inizio, sperduti con le proprie ossessioni, in un finale circolare rispetto all'inizio del film.
In altre parole, dovessi giudicare il film su un piano puramente intellettuale, il mio voto sarebbe un 8 pieno, anche perché Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman sono bravissimi (e mi dispiace non averli visti in originale, se non altro perché ho dovuto sopportare l'orrore delle canzoni tradotte, malgrado la bravura di Adriano Giannini e Francesco Pannofino).
Però c'è il piano emotivo: dove la temperatura, per tutto il film, è stata prossima allo zero polare. E nella mia personale teoria della visione, quando questo succede, nel film c'è qualcosa che non va. E io credo che sia l'altra faccia di quello che ho esposto di sopra: Anderson ha scritto una sceneggiatura logica, consequenziale, chiarissima, ma ahimé, innegabilmente fredda, algida, senza mai un guizzo di calore, di vita, quasi fosse un esperimento. Ha voluto evitare i toni del melodramma e le convenzioni sentimentali del cinema hollywoodiano (se non fosse che ce lo dicono, non ci accorgeremo mai che Freddie desidera la figlia del professore - peraltro indistinguibile da, e quindi confondibile con, la matrigna/Amy Adams), cosa di per sé buona e giusta, ma Truffaut insegna che le regole ha un senso infrangerle solo se le sostituisci con qualcos'altro. Qui, quel qualcos'altro, non c'è. Per tutto il film, non ci è mai concesso, non ci riesce, di simpatizzare con quel che vediamo: lo stile della fotografia (freddissima anch'essa, fino all'inamidato talvolta), l'effetto straniante della musica, anzi, rimandano uno strano senso di distanza, distacco, quasi volessero farci vedere la storia dall'alto, dalla prospettiva di un Dio superiore e impassibile che vede gli uomini andare in rovina. Si arriva addirittura ad eccessi di grottesco sia nella rappresentazione di Freddie che in quella di Lancaster, che non poche volte vanno pericolosamente vicini al confine che separa il personaggio tragico dalla macchietta (come nella scena finale, con il "ricordo" di Lancaster della Comune di Parigi - lì per poco non sono scoppiato a ridere tutt'e due le volte). Forse è possibile, in questo, riconoscere i segni di una specie di "poetica dell'eccesso" alla base del cinema andersoniano (teoria che verificherò con la visione del resto del suo cinema), ma dove in Boogie Nights la cosa acquistava vita diventando un caldo, avvolgente, coinvolgente dramma umano, qui resta al livello di una specie di teorema matematico o analisi scientifica di due anime ossessionate. Ho trovato più coinvolgente Nymphomaniac, per dirne una, e penso che questo la dica lunga.
VOTO: 7/10. Un voto di compromesso fra l'8 del piano intellettuale e il 5, ahimé, di quello emotivo, con un punto in più perché la confezione tecnica è di una perfezione assoluta, dalla fotografia agli attori alla musica al montaggio. Un gran bel film? Sicuramente. Un capolavoro? Non per me, almeno.
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