James Bond non può morire. Nell'anno del cinquatenario della saga cinematografica, il cap. 23 gioca proprio sul sottile filo rosso dei ricordi, quelli cinematografici di Connery e Moore ma anche quelli letterari di Fleming (piccola tirata d'orecchie a Clint: è vero che tutti gli eroi in qualche modo sono orfani, ma nel caso di Bond non è invenzione di quest'ultimo capitolo, era orfano di origine scozzese-svizzera già nei libri di Fleming; sei perdonato solo perché non sono in molti quelli che, come me, cercano anche di leggersi i libri
). E chiude un ciclo, iniziato in parte già con l'era Brosnan, ritornando in un certo senso alle origini.
Che si andasse verso un Bond più psicologico, con più dramma e meno azione, era una tendenza sotterranea della serie, dovuta non solo al fatto che il personaggio originale di Fleming è decisamente più noir, ma anche al cambiamento di un genere che perdeva le sicurezze rassicuranti degli anni Sessanta per addentrarsi in un paesaggio umano più complesso. E quindi, segni di cedimento si erano già manifestati in Moore (specie in
La spia che mi amava e
Solo per i tuoi occhi, non a caso i migliori della sua carriera), e ancora più evidenti in Brosnan (il rapporto con Alec Trevelyan in
Goldeneye, il pianto per la morte di Teri Hatcher nel
Domani non muore mai); fino al cedimento completo di
Casino Royale e
Quantum of Solace, dove la durezza da pugile del viso di Craig ha sostituito la raffinatezza di Connery, Moore e Brosnan, e una visione più cupa del gioco di spionaggio aveva sostituito l'avventura pura e semplice, segnalando l'avvenuto recupero dell'eredità fleminghiana (mai dimenticata, invece, dai suoi epigoni letterari).
Questo film porta i due precedenti alla saturazione: dopo
Al servizio segreto di Sua Maestà, lontano e sfortunato tentativo di fedeltà a Fleming (ma tutt'altro che mal riuscito, anzi con la presenza di Connery avrebbe tranquillamente surclassato
Goldfinger e
Thunderball), questo è il Bond meno esotico, erotico e avventuroso di sempre. L'azione non manca, ma è concentrata in due o tre sequenze spettacolari principali (prologo ed epilogo soprattutto) e due minori (gli scontri al casinò e nel palazzo), lasciando così che tre quarti del film siano in mano agli attori e al loro gioco di psicologie, segreti e rimorsi. Gioco dove Mendes ha sempre dimostrato di essere maestro, già da
American Beauty ed
Era mio padre, e che qui porta alla perfezione.
E pazienza se dopo, ripensandoci, la trama ti risulta assurda (come è possibile che Silva avesse già in mente tutto dall'inizio?): sempre meglio dei piani completamente campati in aria di gente come il Tony Roberts de
La morte può attendere o l'Hugo Drax di
Moonraker!
Fulcro del film è il discorso di M, che ribatte l'importanza della Sezione 00 e del gioco d'ombre in un mondo come quello di oggi, dove il pericolo non è più una nazione ma l'individuo della porta accanto; ma la stessa M si ritrova messa, da autentica madre/matrigna, di fronte alle conseguenze di un simile gioco: vivere nell'ombra significa anche prendere scelte che alla luce del sole suonano meschine, ripugnanti e crudeli. Significa abbandonare i propri agenti quando la loro vita minaccia la sicurezza nazionale, tradendo alle spalle la fiducia che hanno riposto in te; significa rinunciare a ogni rapporto umano che esuli dalla missione. Bond, nato in quest'ambiente, si unisce così al Batman di Nolan nell'essere l'eroe di questo mondo dove tutti tradiscono tutti, dove non c'è più nulla che si riveli solido ma dove, nondimeno, bisogna continuare a lottare.
Judi Dench, dopo sette film, abbandona il ruolo di M, e si candida a un Oscar molto probabile; ma sarebbe ingiusto non citare Daniel Craig, qui in splendida forma, e capace di far vivere il proprio personaggio in tutti i suoi aspetti. E ancor più ingiusto sarebbe non citare Javier Bardem, che (Clint ha ragione) entra di diritto fra i migliori cattivi della serie. Ma meriterebbero tutti una menzione, dalle
new entry Naomie Harris/Moneypenny e Ben Whishaw/Q (quest'ultimo da me molto apprezzato) al nuovo M, Ralph Fiennes, per una volta dalla parte dei buoni, il cui ufficio finale è quello classico di Bernard Lee.
Bond è morto, evviva Bond: seppellita l'avventura pura, elegante e un po' fanciullesca del trio Connery-Moore-Brosnan, ben venga un Bond più duro, meno sicuro di sé, anche più triste e noir. E non sarebbe a questo punto male assistere al ritorno in grande spolvero di cattivi che, nella serie classica, sono stati penalizzati: Ernst Stavro Blofeld, Francisco Scaramanga, Hugo Drax...