Questo, per chi si accinge a guardarsi il terzo capitolo, è ancora più interessante.
Con la consueta intelligente, e non preconcetta, ironia di Zen da un suo articolo su
Gli88folliCapitolo 1: o di come un flashforward alla Tarantino vi spiega dove andrà a parare la recensione.
Il mio amico Leonardo è un tolkieniano di ferro. Dicesi tolkieniani di ferro quelli che leggono Il Signore degli Anelli e il Silmarillion una volta l’anno, tipo, e che sanno nomi e titoli e alberi genealogici e tutto quello che è stato creato da Tolkien. Ché io la gente così la rispetto, perché a malapena riesco a ricordarmi il nome delle persone con cui lavoro, figuriamoci del figlio di Gloin.
Comunque, una sera, ero a fare un aperitivo con il mio amico Leonardo e altra gente e uno di questa altra gente, a un certo punto, ha esordito con la frase “del resto non vedo come una persona normale possa leggere il Silmarillion più di una volta”. Ecco, non saprei spiegarvi lo sguardo di Leonardo, quando ha sentito dire quella cosa. Provate a immaginare la cosa per voi più sacra e cara che avete e poi immaginate che passi tipo il Joker e gli scriva “caccapupù” sulla fronte. Ecco.
Questo per dire che, qualche tempo dopo, Leonardo scrive su uno dei social network al quale è iscritto “Sto guardando Lo Hobbit: La desolazione di Smaug. Cosa cazzo succede?! Chi è questa gente??” più altre cose che non so se posso scrivere perché ci sono le bestemmie e non so se la nostra potente Madreh Fondatrice (all hail!), vuole.
Capitolo 2: o di come siamo arrivati a questo punto.
C’è una cosa che non si può negare, a Peter Jackson, ed è quella di essere riuscito a farsi IL nome. IL nome, miei piccoli lettori, è quello che pochi registi si sono guadagnati e, nel campo del cinema fantastico, possiamo citare Steven Spielberg e George Lucas, per dirne due mica da poco. Sir Peter Jackson è neozelandese, dirige alcuni b movie horror che diventano di culto, dirige quel piccolo gioiello che è “Heavenly creatures”, dirige altre cose e poi arriva a dirigere la trilogia de Il Signore degli Anelli. Ora, per molti questo significa gente con le orecchie a punta e un terzo capitolo con diciotto finali, mentre per appassionati del genere è tipo il sogno che diventa realtà.
Quello di cui spesso non ci si rende conto è che PJ, come lo chiamano familiarmente amici e gente che scrive pezzi su di lui e non ha voglia di mettere il nome per esteso, è riuscito nel non facile tentativo di dare vita una trilogia che piace anche a chi non è appassionato o nerd all’ultimo stadio. Se ci fate attenzione la trilogia dell’Anello, come la chiama la gente di cui sopra, è uno dei pochi esempi cinematografici che piacciono anche allo spettatore “premesso-che-non-capisco-niente-di-cinema” e spesso a quello inatteso, che poi magari non vedrà altro di fantasy, ma ammetterà che quello gli è piaciuto.
Ecco, PJ, si fa IL nome, si guadagna la libertà creativa di uno che ha incassato 11 Oscar in your face, bitch! e comincia a fare quello che molti altri grandi artisti hanno fatto, prima di lui: lo manda in vacca dirigendo film che, diciamolo, non sono propriamente un granché (ma più che brutti hanno un serio problema di cui parleremo dopo). Quindi, quando il suo amico Guillermo Del Toro abbandona in corsa la regia de Lo Hobbit che lui supervisionava, a PJ viene proposto di dirigere altri tre film e lui dice “Ma sì, perché no? Ecco il mio IBAN”.
Capitolo 3: o di come tutto questo sia un po’ un ritorno a casa (con una spruzzata di Star Wars).
Quando è uscito il terzo capitolo della seconda trilogia di Guerre Stellari (provate a leggerlo ad alta voce, non sentite come vi riempie la bocca?), una cosa su cui concordavano un po’ tutti gli appassionati era che i momenti che funzionavano meglio erano quelli che ricollegavano la vecchia e la nuova trilogia. Senza stare a discutere se questo fosse o meno un pregio (suggerimento: no, non lo era), la stessa sensazione la si ha quando si comincia a guardare Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato e PJ ti sbatte nel mezzo della Contea, poche ore prima l’inizio della festa di compleanno di Bilbo che apriva Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello, c’è Ian Holm che fa Bilbo da vecchio, c’è Elijah Wood che fa Frodo che esce di casa per andare a incontrare Gandalf e tu, che con la trilogia dell’Anello hai un rapporto viscerale, ti senti le budella attorcigliate e ti senti come ritornato a casa, quella casa che hai abbandonato anni prima e che, di tanto in tanto, guardi da lontano, sentendone la mancanza.
Il libro de Lo Hobbit, lo dico subito, non si presta a una trilogia. Il materiale è molto poco, rispetto al mostro che è Il Signore degli Anelli, e tutti sapevano che questo significava solo una cosa: allungare il brodo e moltissimo. Questo, tra le altre cose, significa anche che vanno inventate sotto trame e personaggi e che quindi, PJ, ha mano libera. E qui, diciamo, casca l’asino.
Capitolo 4: o di come vi spiego il concetto di “intervention”.
Avete presente il tizio che beve o si droga o entrambi e un giorno si trova in salotto la famiglia, gli amici e i conoscenti e tutti quanti gli dicono “sei un drogato o un alcolizzato o entrambi devi smetterla, guarda come ti sei ridotto” e tutti piangono e si abbracciano e si soffiano il naso? Ecco, io sono sempre una cosa del genere per i registi cinematografici. Tipo che Michael Bay torna a casa e trova la famiglia che gli dice “hai rotto il cazzo con Transformers e quella merda lì” e tutti a piangere e abbracciarsi e soffiarsi il naso.
Una cosa del genere andrebbe fatta con Peter Jackson che ha un grosso problema ed è l’ego. O meglio: il fatto che, dopo una trilogia di successo, con incassi strepitosi e un goziliardo di Oscar portati a casa, ha perso il senso del limite. Il senso del limite di PJ va regolarmente a farsi fottere in un determinato momento dei film di PJ ed è il tremendo “momento inseguimento”. Cos’è il momento inseguimento, miei piccoli lettori? È l’equipaggio di King Kong che scappa da una carica di brontosauri, a piedi, per interminabili minuti, riuscendo non si sa come a schivare la morte più e più volte. È i nani e Gandalf che scappano dalle caverne dei troll in Un viaggio inaspettato e la fuga dura tanto di quel tempo che, quando siete usciti dalla sala, avete trovato i vostri nipoti ormai sposati e con figli. È i nani e Bilbo che scappano lungo un fiume dentro delle botti, mentre elfi e orchi si accoppano e quando finalmente sono arrivati in fondo è già il nuovo anno.
In linea di massima è questa tendenza di PJ a tirare un film fino alle insopportabili durate di due ore e mezza, quando anche già due ore potevano mandarti a casa più che soddisfatto.
Capitolo 5: o di come vi parlo anche delle cose belle.
I due film de Lo Hobbit hanno il problema dell’ego di PJ, delle durate infinite, del fatto che, per giustificare una trilogia di un libro di 80 pagine, devi prendere il personaggio di Legolas, respingerlo dentro a forza e dargli tutta una trama sua dov’è combattuto eroicamente tra la guerra e la gnocca. Devi creare tutta una cosa con gli orchi che cercano Thorin e i suoi per vecchie faide, oltre che per i problemi noti legati a Sauron in nuce e tutto il resto. Il problema è che da un lato ci siamo noi che diciamo “basta così, grazie, sono sazio” e dall’altra c’è PJ che spinge, offrendoci una mentina che, veramente, non ci sta, ma ormai siamo in sala e vuoi mica alzarti e andartene ora che ci siamo quasi, no?
Poi ci sono quei momenti che ho ribattezzato “PJ hai rotto” che sono, oltre ai succitati inseguimenti, anche le scelte registiche che sono diventate un marchio (gente che cammina lungo passerelle o su e giù per scalinate infinite tutte senza corrimano e con l’inquadratura volante o la rivelazione di un nuovo posto con la telecamera che ruota tutto intorno e la musica a levare), ma che ormai fanno sembrare ogni posto e ogni scena uguale a tutte le altre.
Poi ci sono le cose buone, sicuramente. C’è il piacere di rivedere Ian McKellen interpretare Gandalf il grigio o un Martin Freeman eccezionale, che si carica, spesso, il film sulle spalle e lo fa recitando da dio. C’è Smaug che è un drago come uno se lo aspetta (no, un momento, noi nerd abbiamo litigato moltissimo sul discorso “è un drago” “no, è una viverna”, ma non è questo il posto), pazzo, cattivo, carico di follia omicida. C’è la Terra di Mezzo così come ce la ricordavamo ne Il Signore degli Anelli che ti riappare davanti ed è come riconoscere posti dove hai passato dei bei momenti.
Dare un giudizio sulla riuscita delle prime due pellicole non è facile (sempre escludendo i paragoni con i libri, che non interessano, in questa sede). Mi posso spingere a dire che il secondo capitolo è più riuscito, rispetto al primo che è lento, farraginoso, con momenti altamente discutibili e noiosissimi. La desolazione di Smaug riesce a infilare bei momenti commoventi e scene d’azione riuscite, più di Un viaggio inaspettato che, invece, è tedioso anche dove dovrebbe essere emozionante.
Non so cosa aspettarmi dal terzo film. O meglio lo so: né più, né meno quello che ci è stato dato dai primi due, con in più la foga da “siamo all’ultimo film, diamoci sotto, più casino, di più di più!” che ha portato Il Ritorno del Re a essere una interminabile parata di scene che si accumulavano e screen time inconcepibilmente lungo. Ma, come ho avuto modo di dire altrove, dopo la trilogia dell’Anello, cinematograficamente parlando, non abbiamo più avuto pellicole valide, nel genere, fino all’arrivo de Lo Hobbit, che nel suo essere fallato ha tutta la serie di pregi esposti qui sopra. Affronto quindi la visione delle ultime scene come un saluto al vecchio amico che se ne va e sai che non rivedrai per chissà quanto.