| mai visto, sono fuori tempo massimo?
super-recensione di guzzano:
<sono l’agente John Anderton della Sezione Pre-Crimine, la dichiaro in arresto per il futuro omicidio che avrebbe dovuto aver luogo oggi….>. In "Minority Report", futuristica missione impossibile per Tom Cruise, splendido 40enne le cui fattezze (che non appena possono si mettono in canottiera) un maligno dio del cinema da qualche tempo si diverte ad oltraggiare: in "Vanilla Sky" compariva mascherato per mezzo film, qui gli tocca farsi estirpare gli occhi, sostituire le cornee e combattere per la vita bendato, con le preziose pupille a rimorchio in un sacchettino. Siamo nel 2054 e la privacy è solo un ricordo: grazie alla pronta, telematica lettura della retina, i due grandi poteri che gestiscono la vita degli abitanti pianeta - la polizia e la pubblicità - il passato, il presente, gli acquisti e la collocazione nel globo di un individuo non hanno più segreti. Non basta. Sfruttando le doti di veggenza di tre sfortunati nati da madri tossiche e tenuti in semi-apnea in un una piscina (detta ‘il tempio’) col cervello collegato a monitor dove proiettano ologrammi di omicidi in embrione, il Corpo Speciale sopracitato riesce anche ad intervenire in anticipo sul futuro azzerando il numero dei delitti made in Usa. Quando il capitano Cruise/Anderton, che di notte diluisce nella droga e nella musica classica la ferita della perdita del figlioletto, si accorge di essere egli stesso il prossimo killer potenziale, inizia per lui una fuga nello spazio, nel tempo e nella filosofia spruzzata di giallo che si snoda ben oltre le due ore molto compiacendosi, a scatti rianimandosi, spesso avvitandosi su se stessa. Steven Spielberg, geniale animo bambino con gli occhioni spalancati sull’astronave dei pirati cibernetici, affresca una pellicola hi-tech, pallidamente colorata, rallentata da incontri con personaggi verbosi e alla disperata ricerca di un dio in ascolto che abbia pietà della vanagloria umana. L’incontro ravvicinato con Stanley Kubrick, sodalizio che partorì il controverso "A.I. Intelligenza Artificiale", ha lasciato nel regista di "E.T." un segno visionario eppure asettico, ciclico, ricco di angosce. E’ probabile che "Minority Report" sarebbe piaciuto a Philip Dick (e chiediamo perdono per aver atteso tanto prima di citarlo), scrittore di fantascienza, del quale l’editore Fanucci ha appena ristampato la magistrale opera. Uomo che col cinema ha intrattenuto pessimi rapporti e dal cinema ha avuto solo glorie postume. Dick, scomparso vent’anni fa, mente ispiratrice di "Blade Runner", "Total Recall", "Screamers" e del più recente "Impostor" con Gary Sinise (dove ricevette l’oltraggio di essere definito ‘futurologo’ nei titoli di testa), detestava la spettacolarità dell’immagine, i kolossal hollywoodiani, l’esaltazione visiva. Era un archeologo del cervello umano, un teologo dell’interiorità, un chimico delle regole sociali. E a lui si è piegato il re delle emozioni visive, lo squalo delle megaproduzioni, il predatore recordman d’incassi: gli effetti speciali, da sempre piatto forte di Spielberg, si acquattano in un’elegante operazione di mordernariato allestita per non far ombra al Pensiero: conchiglioni volanti, granchietti in alluminio, i gloriosi baccelloni riveduti e corretti e - non appena si può - una bella cucina anni Sessanta o una fuga borghese in campagna. Ne esce un film ibrido, discontinuo, ostinato. Alieno.
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