Ecco la mia rece ufficiale
Giudizio (max 5): 5
Recensione:
Come il filo teso tra due alberi nella prima inquadratura del film e che darà inizio alle violenze e agli incidenti che si susseguiranno lungo tutta la durata della pellicola, il cinema di Haneke si configura fin da subito - e ne Il nastro bianco nella sua forma più assimilata e cristallina - come un cinema della visione "invisibile" o, diciamo con Fogliato, "negata". Il filo che fisicamente, e quindi idealmente, taglia in due l'inquadratura, è invisibile tanto allo spettatore quanto al personaggio che cavalca dal fondo del quadro, fino all'impatto/detonatore della narrazione.
Così Il nastro bianco, summa e rilancio di tutte le sperimentazioni hanekiane, è fin nel suo profondo un sottilissimo gioco di livelli metacinematografici, metanarrativi e metastorici, costruito su di un complesso sistema di spostamenti spazio-temporali che fa del film una delle vette, se non la vetta del cinema di Haneke.
Meta-cinema. Come è possibile riscontrare un gioco metacinematografico in un film come Il nastro bianco, che fin dalla sua trama apparentemente nega quella contaminazione che pure è sempre stata alla base del cinema di Haneke? Tramite due artifici: la fotografia, in primis. Rinunciando al colore in luogo di un austero bianco e nero, Haneke attua già uno spostamento significativo lungo la linea spazio-temporale avvicinando le vicende narrate (siamo nel 1914) al mezzo con il quale le vicende vengono narrate, facendo attenzione a non scadere nella mera mimesi delle condizioni dei mezzi dell'epoca (la fotografia e la ripresa sono pulitissime), ma mantenendo una distanza percettibile e quindi non assimilabile a nessuna pretesa di realismo, o peggio, di documentarismo.
Secondo, la voce narrante: la voce off che - a tratti - ci racconta quanto avviene/ è avvenuto nel villaggio all'epoca dei fatti è un narratore diegetico, che fa, cioè, parte della storia; precisamente è il maestro del villaggio, unico testimone che il film ci concede delle vicende che vediamo scorrere sullo schermo. Esso è un testimone doppiamente estraneo - per quanto, nello stesso tempo, interno: il maestro viene da un'altra città, non fa parte della comunità ed è quindi estraneo alle logiche della stessa; in secondo luogo il testimone non racconta in presa diretta quello che accade, bensì ci parla da un futuro imprecisato come si denota dalla voce anziana e come lui stesso ci racconta durante uno dei suoi interventi. A cosa dunque stiamo assistendo? Ad una ricostruzione filmata di quanto il maestro ci racconta, ad un documentario basato sulla sua storia, o a un commento al film come se avessimo selezionato un contenuto speciale tra gli extra di un dvd? Basta un semplice spostamento temporale di una voce off per consentire ad Haneke di sovrapporre il livello filmico al livello narrativo, eliminando ancora una volta (come in molti altri suoi film: da Funny Games a Cachè) quel distacco tra camera cinematografica e finzionalità della storia, di modo che la prima finisca per influenzare, con la sua stessa silenziosa e invisibile presenza, la seconda, in una identificazione straniante tra campo e fuori campo.
Meta-narrazione. Strettamente connesso al livello metacinematografico è quello della narrazione. Duplicando il testimone (il primo, il maestro da giovane, è un personaggio che compare nel film al pari di altri, il secondo, la voce del maestro da vecchio, è semplicemente udito, voce che proviene da chissà dove e comunque, al pari del primo testimone, presente solo a tratti), Haneke attiva un livello metanarrativo, di una narrazione di una narrazione: vediamo una storia che ci viene parzialmente raccontata da una voce fuoricampo; o meglio, la voce ci racconta, da un futuro prossimo/passato (non viene mai specificato se essa parli al presente o al passato rispetto al nostro presente, o al futuro rispetto al nostro presente) una storia che noi spettatori vediamo ed ascoltiamo per intero, pure laddove la voce off non arriva o per assenza del testimone (il film ci mostra anche scene dove il maestro non è presente e di cui, al massimo, può aver sentito parlare) o per dimenticanza del testimone (ricordando esso il passato, dettagli si perdono, si confondono). Ritorna la domanda: a cosa stiamo assistendo? A cui bisogna aggiungere: quello a cui stiamo assistendo e/o ascoltando, è vero? A chi dobbiamo credere? In realtà abbiamo motivi per dominare di tutto: dei ricordi pieni di lacune del narratore off, ricordi quindi tutt'altro che affidabili, quanto di ciò che il film ci mostra riempiendo arbitrariamente le lacune del narratore, tanto mnemoniche, quanto visive/uditive. Oppure quello che ci mostra il film è la pura verità e la narrazione fuoricampo il racconto soggettivo di un solo, unico testimone? Nella perfetta identificazione tra campo e fuoricampo, si viene così ad aprire una voragine sospesa tra l'indeterminatezza di tutti i riferimenti temporali (tanto del film, quanto del racconto del maestro vecchio che non sappiamo da quale futuro ci parla), voragine che mette in questione la verità del cinema - ingannatore per statuto - finendo, al contempo, per negare la visione affermandola nello stesso tempo, e ugualmente tenerla nascosta, invisibile, come il filo teso tra gli alberi della succitata prima inquadratura: l'effetto è straniante, se non addirittura paradossale.
Meta-storia. All'interno di questo complesso impianto meta-cine-narrativo si inserisce l'ultimo tassello, quello meta-storico. Il film si snoda tra due estremi, corrispondente a due ulteriori spostamenti lungo la linea spazio-temporale: il primo è l'ondata di inspiegabili violenze che si abbatte sul villaggio, il secondo è l'educazione dei bambini, su cui Haneke insiste particolarmente e che sono, a conti fatti, i veri protagonisti del film (essi sono anche i veri destinatari della maggior parte delle violenze). A una impietosa analisi della violenza domestica fa da contro altare la violenza perpetrata dall'esterno delle mura di casa, per altro da ignoti: i due tipi di violenze/violazioni sono strettamente legati in senso meta-storico, ovvero universale; nell'educazione violenta dei genitori dei bambini risiede il terreno che saprà accogliere e nutrire il seme del nazismo: i bambini picchiati e obbligati al perseguimento di una rigida moralità (che deve essere visibile, non a caso: il nastro bianco del titolo, il simbolo dell'innocenza e della purezza, nastro che uno dei bambini sarà costretto ad indossare in seguito ad una disobbedienza o ad un comportamento scorretto), sono i nazisti di domani, pronti a replicare quelle stesse violenza su una scala maggiore, ben al di fuori di quelle mura domestiche all'interno delle quali hanno ricevuto la loro prima educazione. Accanto a questa prima prefigurazione storica, vi è, tramite una vera/falsa ellissi infradiegetica (una ulteriore sovrapposizione divergente: una discrepanza) una seconda e diretta pre-figurazione, diretta conseguenza di quanto appena detto: quella violenza pronta a scatenarsi da lì a pochi anni per mano di quegli stessi bambini a loro volta vìolati è quella stessa violenza che si abbatte su di loro continuamente durante l'arco delle vicende narrate, proveniente da chissà dove, chissà chi e chissà per quale motivo. Il concetto di violenza hanekiana - già sempre esercizio fine a se stesso, desiderio di una visione che Haneke ci nega continuamente (l'atto violento è già sempre ellisso), voyeurismo perverso dello spettatore/complice - trova qui la sua piena applicazione, risalendo (e riscendendo) dal "cuore di tenebra del nazismo" fino ad allargarsi a macchia d'olio lungo le pieghe dell'universale, tracciando quella che viene a darsi come una vera e propria genealogia della violenza e quindi della morale, legandoli insieme in un inaccettabile abbraccio solo apparentemente ossimorico, fino a renderci tutti intimamente complici. Haneke desacralizza il male, lo rende ordinario, quotidiano, perfino innocente nel suo manifestarsi (esso nasce dall'educazione) come quel nastro bianco attorno al braccio del bambino, memento alla purezza e all'innocenza, bianco che ben presto e in qualsiasi momento potrà tingersi del rosso e del nero della fascia nazionalsocialista, memento all'educazione delle masse che nella violenza nasce e perdura, in ogni tempo e in ogni luogo.